All'Auditorium della Stella in scena Delitto e dovere, l'ultimo lavoro del maestro Alberto Colla.
Si può ancora scrivere oggi un'opera lirica che sia al tempo stesso “colta” e popolare? Un'opera che sia figlia legittima della tradizione operistica, ma collocata nel nostro tempo, e accessibile ad un pubblico che non sia di formazione specialistica? La domanda naturalmente è retorica e datata; serve però a inquadrare criticamente la prospettiva creativa di un compositore che ai nostri giorni si accinga a dare un nuovo senso a una forma così “storicizzata” come l'opera.
L'operazione condotta da Alberto Colla sembra tener conto di questa premessa. La sua nuova creazione Delitto e dovere, opera in un atto prodotta dal Teatro Coccia di Novara e presentata al 60° Festival di Spoleto, filtra l'esperienza musicale del Novecento attraverso echi, allusioni sonore e citazioni che attraversano il secolo da Stravinskij a Shostakovic, e ne raccoglie l'eredità in una scrittura saldamente personale.
Attraverso il Novecento
Il libretto è una rielaborazione del racconto di Oscar Wilde Il delitto di Lord Arthur Savile, un testo paradossale e caustico che pone il fato e la necessità al di sopra della morale umana; il registro linguistico è formale ma non sostenuto, abbastanza fluido da dissimulare la distanza dal parlato, con l'occasionale comparsa di forme desuete (“giovin”) che marcano una certa letterarietà del testo.
Sotto il profilo della struttura l'opera presenta elementi formali tradizionali riconoscibili, dal bel concertato d'apertura, di audacia quasi rossiniana, ripreso poi nel quadro finale, alle arie lunghe o brevi dei protagonisti, all'arioso delle parti più dialogate.
La materia musicale oscilla, come accennato, fra gli echi della musica novecentesca – esplicita l'allusione a Elgar nell'ultima aria del protagonista – facendo affiorare diverse suggestioni sonore, cangianti per timbrica e per stile, all'interno di una scrittura unitaria guidata dalla mano ferma dell'autore.
Un bel lavoro d'insieme
Notevole la conduzione di Giovanni Di Stefano, che dirige con sicurezza ed esiti brillanti una partitura difficile, eseguita con energia e disinvoltura dall'Orchestra dei Talenti Musicali. Abbastanza convenzionale la scelta dei costumi di scena, che asseconda con garbata eleganza l'ambientazione vittoriana del testo di Wilde; misurata la regia di Gavazzeni e Maranghi, che si affida a movimenti semplici, di gusto tradizionale, e alla pulizia delle scene; preziosi i disegni di Akos Barat, proiettati sul fondale, capaci di evocare senza dichiarare tanto le ambientazioni esterne quanto il clima psicologico.
A completare degnamente la messa in scena un buon cast d'interpreti. Menzioniamo, su tutti, il baritono Marco Bussi (Lord Arthur), fraseggio chiaro, voce corposa – i toni più gravi penalizzati purtroppo dall'acustica della chiesa, divenuta Auditorium della Stella – e dotato di autorevole presenza scenica; il soprano Laura Baudelet (Sybil), voce agile e brillante, elegante nel fraseggio, leggiadra nell'interpretazione del personaggio; e Carlotta Vichi (Lady Clementine), applaudita non meno degli interpreti principali, non soltanto per il bel timbro di mezzosoprano, ma anche per la spigliatezza attoriale. Ad Alessandro Tedeschi sono affidati alcuni inserti recitati nel ruolo didascalico di Oscar Wilde; la buona presenza dell'attore non basta però a spiegare la ridondanza di queste parti, di cui l'opera potrebbe senza gran sacrificio fare a meno.
Alla fine il pubblico applaude con soddisfazione la riuscita messa in scena di questo lavoro; un segnale da leggere con attenzione, per dare più fiducia e più spazio alle rappresentazioni d'opera contemporanea, soprattutto all'interno di un festival ricco e ambizioso come quello dei Due Mondi.